martedì 4 agosto 2009

A PROPOSITO DI CONFERENZE...

...Riflessioni sull’intervento del Prof. Paolo Berdini dell’Università di Roma Tor Vergata al convegno organizzato dal Comitato Versus Complanare a San Rocco il 24/7/09 u.s.


- di Giuseppe Gambelli segretario comunale UdC



La prassi degli accordi di programma per modificare gli strumenti urbanistici in deroga alle regole edilizie che formano il piano regolatore, e gli altri strumenti urbanistici, rappresenta il principale metodo mediante il quale ai Comuni italiani è stata concessa una grande discrezionalità: quella di poter accogliere o non accogliere le richieste dei privati di accordo per poter costruire sui fondi agricoli con una vocazione edificatoria, ossia non soggetti a vincoli inderogabili e idrogeologici, o ambientali, paesaggistici ovvero di interesse storico o culturale.

La discrezionalità può spingersi fino a derogare agli standards urbanistici di cui al D.M. 1444/68 laddove questi prevedono che gli strumenti urbanistici debbano riservare una parte del territorio alle destinazioni d’uso ad interesse pubblico, come parchi e giardini, mentre resta inderogabilmente tutelata l’esigenza di mantenere una minima ampiezza per le strade, a seconda di come sono classificate, e di mantenere le fasce di rispetto stradale nonchè una dotazione minima di parcheggi, a servizio delle varie tipologie di insediamento.

Le strade sono disciplinate da disposizioni inderogabili ancora presenti nel Codice della Strada, mentre gli standards inderogabili relativi ai parcheggi sono definiti da varie leggi statali e regionali inderogabili, tra cui la nota legge Tognoli (122/89).

La modifica della destinazione d’uso da agricola a residenziale apporta un profitto notevole al proprietario, e quindi chi ha un grande capitale da investire vede nella speculazione edilizia la possibilità di realizzare guadagni di gran lunga superiori a quelli che si ottengono investendo nel settore dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, e nelle altre attività che producono valore aggiunto e lavoro, senza necessariamente consumare il territorio, come invece avviene quando si cementifica una zona verde.

Per avere la modifica della destinazione d’uso ed il relativo guadagno, l’immobiliarista deve ottenere semplicemente l’accordo di programma con il Comune e quindi ha l’esigenza di conquistare il consenso dei suoi amministratori.

La metodologia utilizzata per arrivare a questi accordi è la più varia e prende il nome di “urbanistica contrattata”.

Per realizzare un opera di interesse pubblico si può utilizzare l’accordo di programma, se invece la modifica della destinazione d’uso è funzionale all’avvio di un’impresa, si può andare in variante con la procedura semplificata prevista per lo sportello unico per le imprese. In assenza di questi presupposti, serve una variante al piano regolatore.

Le varie procedure saranno dettagliatamente commentate nella successiva esposizione.

Gli accordi possono prevedere varie contropartite per il Comune tra le quali la più frequente è la realizzazione di opere di urbanizzazione, come le strade, le fognature, e le reti della pubblica illuminazione, del gas, dell’informatica eccetera, anche per importi più alti di quelli poco rivalutati che sono stati stabiliti dalla normativa regionale e comunale come contributo di costruzione.

Altre possibili contropartite degli accordi sono la manutenzione delle opere di urbanizzazione, la cessione al Comune di una parte degli alloggi che si prevede di realizzare, o la cessione di alloggi ai soggetti espropriati, per compensarli per l’eccessivo sacrificio imposto per l’esproprio, in rapporto al guadagno del costruttore e del Comune.

Esistono poi gli accordi non scritti, perché è notorio che se un’impresa salva dal fallimento una squadra di calcio o meno venalmente aiuta un’associazione filantropica, avrà di fatto il diritto a riscuotere in termini politici il credito e la stima conquistata presso i cittadini.

Sul piano formale, l’accordo di programma in variante agli strumenti urbanistici, che è stato voluto dal Legislatore, in nome della semplificazione, è previsto dall’art.34 d.lgs. 267/00.

L’accordo di programma produce automaticamente gli effetti della variante urbanistica e della dichiarazione di pubblica utilità, ai fini dell’avvio delle procedure espropriative per le opere pubbliche.

La Regione Marche, come le altre Regioni, ha recepito la normativa sugli accordi di programma con una propria normativa, che nel nostro caso è l’art.26 bis della legge regionale 34/92, modificata con la l.r. 16/05 e ha attribuito la competenza a promuovere l’accordo al Sindaco, o al Presidente della Provincia o della Regione, a seconda che l’intervento sia di interesse comunale, provinciale o regionale. Per far diventare gli appartamenti come un qualcosa di pubblico interesse, in certi casi è bastato inserire le nuove edificazioni nel quadro di un piano di riqualificazione di una piazza o di un centro storico, per cui tutto può diventare in teoria materia di accordo di programma, perché l’interesse pubblico che legittima la procedura semplificata, se non c’è, si trova, come corrispettivo per un privato che sarà tenuto a realizzare opere pubbliche in cambio di maggiori volumetrie riconosciute, o altro.

La procedura di accordo è molto più agile rispetto a quella ordinariamente prevista per l’approvazione dei piani regolatori e delle sue varianti e la partecipazione degli interessati al procedimento è assicurata con disposizioni che disciplinano la partecipazione dei proprietari espropriati (art.11 DPR 327/2001 ed art.7, legge 241/90), mentre con la conferenza di servizi ai sensi dell’art.10 della legge 327/01 è una fase successiva dell’iter per l’approvazione dell’opera, se è l’opera è pubblica.

Le Province hanno cercato di frenare l’uso eccessivo degli accordi di programma, esprimendo parere negativo nei casi di incoerenza dei progetti comunali con la programmazione di competenza.

Questo meccanismo ha portato al sacrificio del territorio di tutti, per il bene degli enti locali e delle imprese, ma non solo di essi.

Andando a ritroso, nel percorso delle strategie politiche della seconda Repubblica, si può cogliere il senso dell’operazione che ha portato al massimo decentramento delle competenze ai Comuni in nome della semplificazione.

Con la legge 59/97, con la legge regionale 10/99 e con il d.lgs 112/98 è stato dato l’avvio ad un massiccio decentramento di funzioni agli enti locali, che è servito allo Stato per liberarsi di competenze e funzioni che il debito pubblico non consentiva più di mantenere in forma centralistica.

Con la legge 127/97 è stato eliminato il controllo indipendente dei Comitati regionali di controllo e dei Segretari comunali, controllo criticabile e perfezionabile, ma che non andava eliminato.

Altre disposizioni come la Riforma del Titolo V° della Costituzione (L.C. 3/2001), hanno completato l’opera di esautoramento dei controlli preventivi di organi esterni sugli enti locali, e ad oggi anche la Corte dei Conti è stata ridimensionata, potendo condannare gli amministratori solo per ipotesi di responsabilità per dolo o colpa grave, per non parlare del recente condono della responsabilità erariale.

Al controllo esterno, è subentrato un controllo interno, nei Comuni, spesso definito anche come “autocontrollo”, e l’esperienza ha mostrato che sono meno incisivi i controlli svolti da organi come il nucleo di valutazione interno o i revisori, i cui membri sono scelti e pagati da chi dovrebbe essere controllato, ossia dall’Amministrazione, nella persona del Sindaco, che può nominare e revocare gli Assessori, con una semplice lettera.

Nella P.A. i controlli interni di cui al d.lgs 268/99 non funzionano perché gli enti pubblici non hanno il contrappeso dei soci, degli azionisti e del Tribunale, ma hanno di contro un TAR che prevede procedure più complesse e costose.

I Sindaci rispondono agli elettori, ma gli elettori sono anche quelli che cercano gli accordi, e un accordo con il comune conviene, più che una sfiducia.

Ecco svelato il “sistema”. Ogni riferimento a fatti e persone non è voluto, perché oggetto della relazione sono le leggi astratte italiane, che sono permissive e sono state volute dai partiti di entrambi gli attuali schieramenti.

A ciascuno la possibilità di fare paragoni come meglio crede con la realtà che legge e vede tutti i giorni.

Singole leggi come quelle per la riforma del reato di abuso d’ufficio e del falso in bilancio rendono poi più marginali le ipotesi in cui si può ipotizzare la responsabilità di un amministratore pubblico o di una società pubblica in house.

Le riforme che riducono il potere di svolgere intercettazioni telefoniche riducono il rischio di veder compromessa l’immagine di chi cerchi accordi in ogni modo, o altro.

Per l’immagine, si può acquistare anche la proprietà dei mezzi di informazione, o far vivere gli editori con la pubblicità nei mass media, e i clienti sponsor se pagano difficilmente sono attaccati.

Tutto questo gira intorno al danaro.

La conclusione è che è venuto a mancare il contrappeso al potere assoluto dei Sindaci, ed i Sindaci hanno pagato storicamente questo dono con gli oneri di aver avuto molte funzioni da gestire e poca autonomia fiscale per far quadrare i conti.

Il pareggio finora è arrivato con lo sfruttamento del territorio.

Sarebbe il caso di porre fine a questa tendenza iniziando dal potenziamento dei controlli esterni e preventivi, e quindi imponendo una radicale semplificazione organizzativa al sistema della P.A. centrale e locale. Abbiamo troppi enti locali, è impossibile elencarli in questa sede.

Con le riforme, si potrebbe iniziare a rendere obbligatoria la formazione di un’unica associazione fra comuni per gestire tutti i servizi in un dato territorio con una visione più unitaria, con minore attenzione per i cari orticelli di potere, e con una programmazione meno frammentata grazie alle economie di scala che discendono dal vero associazionismo fra enti locali.

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